My soul is painted like the wings of butterflies...

My soul is painted like the wings of butterflies...
‎"Il minimo battito d'ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall'altra parte del mondo..."

Ci sono due modi di vivere la tua vita.

Una e' pensare che niente e' un miracolo.

L'altra e' pensare che ogni cosa e' un miracolo.

Albert Eisten

Informazioni personali

La mia foto
Nata il 13/o8/87 a Catania. Vivo con la mia famiglia a Riposto...dove ho sempre vissuto. Del mio paese cosa amo?Il mare e la voglia di sentirsi grande, anche nella sua piccolezza. Cosa non mi piace? La spazzatura e la mafia.E l'idea di rimanere attaccata ad un paesino di provincia che non presenta così tante opportunità.

mercoledì 15 dicembre 2010

NON HO TEMPO PER GIOCARE


Catania. 2010.

Quartieri disagiati e bambini che “giocano” con le armi e la droga.

Li vedo già quei giganti senz’anima, imperterriti testimoni di una storia fatta di miseria, di una libertà bugiarda e affamata della vita. Sembra un mondo a parte. Come l’isola che non c’è di un Peter Pan all’incontrario. E pensare che quei palazzoni sarebbero dovuti appartenere a una sorta di new town. Una città dentro una città, autonoma e indipendente, destinata ad un insediamento abitativo di pregio e livello elevato; invece mentre ancora cammino tra le vecchie colate di lava che costeggiano l’autostrada, sovrastate dalla natura esotica, vedo solo un triste grigiore. Forse sono sola condizionata dai miei pregiudizi … di questa storia siciliana che a tutti piace sentire. Solo sentire.

L’universo giovanile a Catania è molto complesso: è la risultante di variabili incrociate, dove alle carenze strutturali di risorse si è sommata spesso l’inadempienza delle istituzioni. Ultimi dati ISTAT ci dicono che Catania è la capitale della delinquenza minorile perché supera del 17% la media italiana di minorenni denunciati tra i 14 e i 17 anni. Dei 1957 minori arrestati in Italia nel 2005, 257 sono stati arrestati nel distretto catanese. Di questo fa parte anche Librino, uno dei quartieri in cui la città borghese ha esiliato la sua anima popolare. Esempio concreto di una concretezza mai vista; vittima di inutili procedure burocratiche, di un aiuto che fa sempre un passo indietro. Di un’assenza che ha trasformato il quartiere in una giungla di rancori.

Progettato negli anni 70 dall’architetto giapponese Kenzo Tange, Librino prevedeva l’accoglienza di circa 60.000 abitanti, in un sistema moderno costituito da larghe strade ed isole alberate, strutture sociali, scolastiche, religiose ed amministrative. I primi problemi nacquero quando ci si accorse, in ritardo, che la zona prescelta risentiva del grosso problema del forte inquinamento acustico prodotto dall'andirivieni degli aerei che decollavano e atterravano nel vicino Aeroporto di Catania-Fontanarossa; inoltre, da un punto di vista climatico e ambientale, la zona non era molto amata dai catanesi, essendo lontana dall'Etna, così il quartiere finì per degradarsi fino a diventare un insediamento abusivo di case popolari e simbolo della criminalità. Gli insediamenti abusivi hanno avuto una tale consistenza da “giustificare” il riordino urbanistico- edilizio, previsto dalla legge regionale n°71 del 27/12/1978. Oggi il quartiere, con soli 30 anni di vita, ospita più di 70.000 abitanti e il comune non è in grado di dire quanti siano gli appartamenti liberi e quelli occupati.

In Viale Moncada mi aspetta la dottoressa Giuliana Gianino, psicopedagogista e responsabile del centro per minori “Talità Kum” (in aramaico: “Fanciulla Alzati”). Un mondo a colori dentro un mondo in bianco e nero. Sento ancora il profumo della vernice fresca. E il suono di un mondo sfuggito di mano. Quel mondo che spesso fa fatica ad aggrappare una storia, un pericolo. Un perché. Sento ancora il peso degli sguardi sull’ennesima sconosciuta che invade il loro territorio con l’assurda illusione di poter cambiare le cose. L’agnello è circondato dai leoni?

Librino è il quartiere più disagiato del capoluogo ed ha la più alta percentuale di minori che a 14 anni conoscono il carcere e hanno già alle spalle episodi di rapina e spaccio. Nei peggiori casi anche di omicidi. Capitoli di una vita che forse non chiuderanno mai: la dott.ssa Gianino mi spiega che i bambini raccontano i loro reati in maniera così naturale che sembra stiano raccontando di aver mangiato un pezzo di pane. Orgogliosi del loro lavoro. Soddisfatti del loro compenso. Convinti, purtroppo, di aver fatto la cosa giusta.

Per la maggior parte di essi la prematura carriera deviante rappresenta l’inizio di una stabilizzazione della personalità e del comportamento in senso delinquenziale. Questo , sembrerà superficiale, ma viene manifestato anche attraverso il legame con il loro quartiere. Sono tante, infatti, le dichiarazioni d’amore a Librino che leggo sui muri dei palazzi. Questione di radici o causa di “giri” particolari? È vero anche, che non avendo punti di riferimento e vivendo in situazioni familiari disagiate, scelgono di estraniarsi dal mondo, nella sua totalità, per viverne solo una piccolissima porzione: il quartiere. Il quartiere diventa casa. Ma per viverci devi stare a certi compromessi: praticamente è un circolo vizioso.

La delinquenza minorile è strettamente legata al contesto sociale e culturale, fatto spesso di povertà, disoccupazione e problemi familiari. Nei quartieri a rischio i bambini crescono allo sbando, vivono in abitazioni malsane, molti di loro hanno il padre o il fratello in carcere, non frequentano le scuole dell’obbligo e vengono proiettati nella strada con l’esigenza di guadagnarsi da vivere, che sia per aiutare la famiglia ad andare avanti o per tentare di emulare i coetanei di famiglie benestanti che ostentano lusso. Il minorenne che spaccia o rapina, quindi, è un adolescente del quale, il presente quadro urbano e sociale, ha fatto un adulto per forza. Un adulto “forzato” che deve buttarsi tra le braccia di una mafia che si finge paterna; che è lì, che attende all’angolo della strada, pronta a raccogliere ogni sfogo di delusione.

In genere la malavita “recluta” i ragazzini per le commissioni di droga e per varie rapine, mentre essa corre a nascondersi dietro il volto di un boss ormai troppo importante per agire direttamente. Questi reati costituiscono una valida alternativa all'impossibilità di muoversi sulla scala sociale e un canale di socializzazione fondamentale nel “gruppo dei pari”. Infine la possibilità di costruirsi un’ identità che altrimenti non sarebbe riconosciuta dal mondo degli adulti. Così viene a crearsi una “felice convergenza” tra la mafia e i bisogni dei minori. Chi si rifiuta di lavorare per Cosa Nostra o va via o rimane in silenzio. In fondo, si sa, le cose a cui si può benissimo sfuggire sono quelle che non danno fastidio, mentre quelle da cui si vuole disperatamente scappare ti seguono ovunque.

Questo processo è reso possibile dall’assenza di una coscienza e della responsabilità individuale che, in questi ragazzi, è inesistente, perché in assenza di ruoli ben definiti ed efficaci da parte dei genitori, il gruppo dei pari e l’appartenenza a certi clan diventano gli unici punti di riferimento. Inoltre sono le famiglie stesse che fanno già parte di quei reticoli cui i minori sembrano inevitabilmente destinati. Avendo portato loro un cambiamento sociale, grazie al quale sono passate da situazioni di povertà a situazioni di relativo benessere, sono spinte verso attività illegali, funzionali al mantenimento di un certo regime di consumi. D’altronde come può un bambino avere l’istinto di uccidere, se non è educato a farlo?

Viale Moncada è il centro del Librino che fa paura. Al numero 3 spicca un enorme palazzo comunale di 13 piani, finito di costruire nel 1992 ma mai veramente completato. È abitato da circa 46 famiglie, tutte abusive. Vivono in situazioni di estrema povertà. Senza luce e senza acqua. Tra i sacchi dell’immondizia e la puzza di fogna. Lo chiamano “Palazzo di Cemento” e non può che definirsi un’enorme baracca fatta di stanzoni fatiscenti. La Gianino mi racconta che molte volte lei e i suoi volontari hanno accompagnato i bambini nei loro appartamenti del palazzo: «ci sono adulti che fanno di tutto per renderlo il più dignitoso possibile, ma ciò che non è non può esserlo». Ci sono momenti in cui perdo la concezione dello spazio, sono in un quartiere catanese o in un paese del terzo mondo? A presiedere il perimetro del palazzo vedette e spacciatori. Sono le quattro di pomeriggio, c’è il sole. Ma l’attività di smercio di droga è in pieno svolgimento. Giochi illegali di mani vengono svolti sotto gli occhi di tutti. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Si guardano furtivi, indifferenti. E chissà, magari avranno avuto paura.

Il palazzo di cemento è lo stigma che ogni librinese porta inciso sulla propria pelle come una condanna. C’è chi vorrebbe abbatterlo, chi ci passa di fronte noncurante di tutto. Chi lo ama e chi, invece, lo affronta con coraggio e semplicità. A pochi passi dal “monumento” esistono, infatti, realtà che combattono proprio quel male di vivere. il centro Iqbal Masih, la squadra di rugby I Briganti, il mensile La Periferica e per l’appunto il centro per minori Talità Kum. Queste sono le vere ricchezze di Librino, che insieme alla Cgil e Fillea-Cgil, al comitato LibrinoAttivo, al gruppo scout Librino, alle cooperative edilizie “Risveglio e Amiconi”, agli Istituti Comprensivi “A. Musco” e “E. Pestalozzi” hanno presentato, ormai per la terza volta il 13 luglio 2010, “La piattaforma per Librino”: un documento con il quale si pongono l’obiettivo di creare “un percorso di trasformazione sociale tramite il diretto coinvolgimento degli abitanti”. Evidentemente anche quel pezzo degradato di Viale Moncada nasconde una realtà diversa. Quella realtà che spera di far rinascere il sogno di Tange.

«Cerchiamo semplicemente di portare a questi ragazzi i colori della vita, proponendo costanti e vitali alternative a chi magari ha il padre in carcere, la

madre assente o, semplicemente, vive in un quartiere in cui gli spazi di socializzazione non esistono. Librino ha un’alta percentuale della criminalità minorile, è vero: è il cancro di questo quartiere come di altri. Il fatto è che è un quartiere giovane, con molti abitanti e la maggior parte di essi sono giovani. Non tutti, però, intraprendono la carriera criminale; ci sono giovani che studiano e lavorano, peccato che lo fanno fuori di qui, non vivendo, così, il loro quartiere, ma usandolo solo come dormitorio.» La dottoressa Gianino parla con molta serenità e nei suoi occhi leggo la forza e la speranza con cui affronta questo mondo che non è sempre stato suo. Con un coraggio che non fa rumore. Il Talità Kum apre i battenti nel 2007, nell’ambito del "Progetto Aree Metropolitane", attivo dal 2005 nelle periferie di dieci città italiane, promosso da Caritas Italiana in collaborazione con l'Università Cattolica di Milano. Un grande locale abbandonato è resuscitato a nuova vita, trasformandosi da garage di motorini a spazio di bellezza. È proprio vero che da un terreno deserto possono nascere fiori rari e preziosi. «Non ci hanno accettato subito. Il primo mese è stato quello che non ci ha fatto dormire la notte. Sono entrati con la macchina e un’altra volta hanno anche rubato qualche cosa, che poi però hanno restituito. Oltre tutto con i bambini stessi è stata una continua messa alla prova: non potevamo attaccare una foto che veniva strappata, tanti oggetti sono stati rotti. Ma come qualunque cosa, l’inizio è la fase un po’ più dura. Adesso è tutto superato e noi, francamente, ci sentiamo voluti bene.»

Ad interromperci è Ciccio, un simpatico ragazzino biondo con le lentiggini. Chiede qualcosa a Giuliana in dialetto stretto, poi mi guarda, «Ciao» e una stretta di mano. Lo seguo con lo sguardo mentre va a scrutare il mondo da quella finestra, come se ci fosse un orizzonte da raggiungere, per poi andare oltre. Come se volesse fermare la realtà non sapendo come viverci. Giuliana gli sta procurando un secchio di vernice gialla e lui se ne sta lì, immobile. Ogni tanto mi lancia un’occhiata e mi sorride. Uno sguardo che mi rammenta la bellezza in un mondo imperfetto. Penso a quanto siamo poveri noi, vittime della smania di successo, schiavi del denaro, del potere. Persino del tempo. Quel tempo che bisogna prendersi per guardarsi negli occhi. Anche prima di andare via.

La mia visita al “quartiere delle torri” finisce qui. L’aria è umida e io inizio a perdermi in discussioni immaginarie. Come se non avessi avuto modo di discutere! Il fatto è che certe situazioni sono così scontate che non trovano risposta. O forse sono così scandalose da non saper dove iniziare a puntare le dita. Dipende dai punti di vista. Mi viene in mente la frase di un grande uomo, che porto sempre nel cuore “il fresco profumo di libertà fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza e quindi della complicità”. Ma chi è che riesce a sentirlo questo profumo di libertà? «Chi si fa i fatti suoi va avanti». Questo è il motto degli abitanti. Ma come fanno a cambiare idea se anche la polizia evita di appostarsi dove dovrebbe, per fermarsi nei luoghi più tranquilli? È proprio questo che deve cambiare: il modo di pensare. Azzerare la cultura e i valori antilegali. Dissuadere pregiudizi e paure, per smuovere le coscienze. E infine colmare il vuoto istituzionale. Perché è proprio per questo che, per loro, la mafia sostituisce tutto ciò che non c’è. Secondo uno studio dell’Università di Catania, “il tasso di devianza e microcriminalità aumenta quanto più è alto lo scarto tra la realizzazione dei palazzi e quella delle infrastrutture e dei servizi”.

Ultimamente, tra le vie di Librino, risuonano i versi di una canzone napoletana, dedicata proprio al palazzo di cemento: “U Statu nun fa mai nenti ppi tutta sta genti” (“Lo stato non fa mai niente per tutta questa gente”). Frasi come queste non rimangono fissi ai versi di una canzone, ma diventano un’amara consapevolezza anche nei bambini.

Ma adesso sono già lontana, al cantuccio di una stanza tranquilla, pulita. Tra gli scatti di una famiglia che sorride. Con un foglio bianco e una storia vera da raccontare. Scossa ancora da quel terremoto dentro un paradiso di normalità. Eccola la mia storia. Triste, malvagia. Fatta di ignoranza e povertà, di rancori e di silenzi. Di bambini accomunati da un desiderio smodato di vita che non trova nessun riscontro nella realtà in cui vivono, sommersi da un fatalismo che impedisce loro qualsiasi progetto o possibilità di riscatto sociale.

Non erano leoni, semplicemente persone come tante che cercano di difendersi dall’inferno che c’è dentro di loro. Che cercano disperatamente di intravedere ancora la prospettiva di qualche sogno che aspetta di nascere. Lì, tra le crepe di rancori, nelle mura umide che trasudano i peggiori anni di una vita scandita dal metronomo della detenzione.

Non deve trovare giustificazione il fatto che un luogo in cui la sopravvivenza risulta più difficile c’è sempre stato. Non deve trovare rassegnazione il fatto che ci sarà sempre. Intanto gli abitanti aspettano, sudati del loro vivere quotidiano. Ma la vita a Librino non si ferma. E non si vuole fermare.

Neve, lava e quel mare che profuma d’Africa.


sabato 9 ottobre 2010

TRA LE LUCI DI UN DIRITTO… QUELLO DELLA VERITÁ


Sono passati 19 lunghi anni da quando Vito Luciano Grasso ha lasciato , per l’ultima volta, alle sue spalle la porta di casa sua. Quell’ormai lontano 4 marzo 1991. Lasciando dietro di sé un silenzio che rimbomba ancora oggi.
Giorno 26 si è svolta, con il patrocinio del comune di Giarre, una fiaccolata per ricordare la tragedia della famiglia Grasso. L’ennesimo tentativo, voluto anche da Don Vincenzo Sanzone, per rompere il silenzio e l’indifferenza. Per smuovere le coscienze di chi sa e tace ancora.
Partita dalla chiesa Gesù Lavoratore, si è arrivati in piazza Duomo. Striscioni, parole e immagini per ricordare Vito e la sua storia. La storia di un’attesa crudele, ingiusta. Dolore e speranza ti strusciavano addosso e gli occhi lucidi della gente ti dicevano che, finalmente, dopo tanto tempo, si sentivano anche loro parte di questa perdita.
“Perché nessuno parla?” È il grido di una sorella che non grida vendetta, ma solo giustizia.“Maledetta indifferenza!Quanta crudeltà c’è in una verità taciuta, quanta vita rubata.”
Alla fiaccolata ha partecipato anche l'associazione Penelope,oltre alla Diocesi di Acireale, l'Avis e la croce rossa. La vice presidente nazionale dell’associazione per le famiglie degli scomparsi ha fatto emergere dati molto gravi riguardanti le persone scomparse solo in Sicilia, affermando che nella società di oggi “il fenomeno è sommerso, dimenticato. Ma esiste.”
I genitori di Vito, i fratelli, non hanno mai smesso di cercarlo. Dal momento in cui i suoi vestiti sono stati ritrovati sulla battigia di Fondachello. Oggi Vito avrebbe 38 anni. I dettagli di certi ricordi iniziano a farsi in bianco e nero, ma la speranza e l’amore sono legati al cuore di queste persone, che per quasi vent’anni hanno sopportato questo dolore insopportabile in maniera sobria. E per tutto questo tempo si sono chiesti il perché di tutta questa sofferenza. Ancora aspettano una risposta. Una di quelle risposte che, forse, solo il nostro cielo e il nostro mare, potrebbero darci.

lunedì 3 maggio 2010

Un freno a forma d'amore

La “Casa della Speranza” è nata nel gennaio del 2009. Realizzare un’opera a favore degli ultimi è il compito che Viviana Lisi ha lasciato ai suoi amici e parenti, all’ordine a cui apparteneva, i Camiliani, e a tutti noi. Dopo la sua prematura morte padre Carlo, la famiglia e tutta l’associazione “Viviana Lisi” hanno voluto fortemente che questo progetto si realizzasse, ed ecco che il comune di Riposto da all’associazione, in comodato d’uso per 29 anni, la struttura sita in Corso Europa.
La Casa è interamente gestita dai soci dell’Associazione e dai volontari, senza i quali non sarebbe stato possibile realizzare e far crescere questo “progetto che va oltre la morte”.
“Stare a contatto con persone che dalla vita hanno avuto meno di me mi ha fatto capire quanto, in fondo, può essere facile gioire per le cose più piccole, solo che la frenesia della vita ci abitua a correre e non riusciamo a fermarci davanti le cose che, in realtà, sono davvero importanti”. La signora Claudia Puglisi, una delle volontarie della Casa della Speranza, inizia così a raccontarmi la sua esperienza, iniziata circa 9 mesi fa.
Come e perché ha iniziato la Sua attività di volontariato?
“Ho sempre fatto qualcosa, ma a piccoli livelli, anche perché i miei figli erano piccoli e fare la mamma ti toglie parecchio tempo; adesso loro sono cresciuti e io ho trovato il tempo da dedicare ad altre persone. Credo che fare volontariato ti dia tanto perché ti mostra un lato della vita che non siamo abituati a vedere”.
La Casa della Speranza accoglie molti extra comunitari: in un’epoca come la nostra, dove si parla di xenofobia,dopo gli scontri a Rosarno, accuse, denunce e scontri vari, non ha avuto qualche titubanza prima o durante il cammino intrapreso?
“Assolutamente no. Io credo fortemente nella mia religione, ma credo soprattutto nel rispetto. Ogni persona ha il diritto di sentirsi tale, di ricevere amore e di valorizzare la propria dignità, che creda in Dio o in Allah,che sia bianco o nero. Non mi sono minimamente posta il problema. Non sbagliano gli italiani o gli africani o i romeni, sbagliano le persone. Semplicemente”.
C’è qualche storia che l’ha colpita in particolare?
“Ogni storia, lì dentro, ha qualcosa da darti. Una risata, una chiacchierata, una piccola confidenza, i bambini che giocano. Basta solo qualche ora per poter tornare a casa con qualcosa in più nel cuore, ed è proprio questo qualcosa che ti spinge a tornare”.
La struttura è adibita a diverse attività. Per scendere un po’ più nei dettagli, Lei cosa fa di preciso nelle sue ora di volontariato?
“Sì, infatti il pian terreno, nei pomeriggi, è occupato dai bambini che fanno dopo scuola. Il quartiere che vi è nei dintorni non è dei più agiati ed è importante che ci sia la possibilità di offrire una “chance” a questi bambini, la cui famiglia non potrebbe permettersi di pagare nemmeno un’ora di doposcuola privato. Io però non mi occupo del doposcuola, ma di intrattenere i più grandi: per esempio, alcuni pomeriggi fumo una sigaretta con Omar e ci mettiamo a parlare, oppure durante questa pasqua sono andata a messa con alcuni di loro. Aiuto portando anche qualcosa di materialmente utile e in questo coinvolgo anche le mamme dei miei alunni. Sembrano cose piccole, banali, ma sta proprio qui il paradosso: mentre a te sembrano gesti riduttivi, a loro hai dato tanto”.
È veramente bello percepire la Sua gratificazione. Correndo ci si stanca prima, è vero, premere il freno davanti qualche fermata può rivelarsi molto interessante. Noi ci auguriamo che, almeno per un po’, tutti noi possiamo provare a rallentare la corsa della nostra vita per riuscire a captare i colori e i sorrisi che ci circondano e afferrare le mani che ci vengono tese. Tutto sta nell’avere il coraggio di scegliere!

venerdì 12 marzo 2010

8 marzo...work in progress


Un tempo si celebrava con le manifestazioni femministe.

Oggi, tra cene con strip maschili e offerte di sconto in beauty farm, ma tra la massa c’è chi prova a dare colore a vecchie foto ingiallite.

C’erano una volta 129 donne che, per protestare contro le terribili condizioni in cui erano costrette a lavorare nell’industria tessile Cotton di New York, occuparono la fabbrica. Lo sciopero si protrasse per alcuni giorni, ma l'8 marzo il proprietario Mr. Johnson, bloccò tutte le porte della fabbrica per impedire alle operaie di uscire. Scoppiò un incendio e le 129 operaie prigioniere all'interno morirono arse dalle fiamme. Tra loro vi erano molte immigrate, tra cui anche delle italiane, donne che cercavano di affrancarsi dalla miseria con il lavoro.

Fu Losa Luxemburg che propose questa data come una giornata di lotta internazionale, a favore delle donne. Un giorno, però, la Bella Addormentata si è svegliata, cambiando punti di vista e il vero valore della festa della donna, che oggi, sa di un giallo sbiadito, come le foto d’epoca. Ed ecco che l’otto marzo aiuta l’economia del paese: ripopola ristoranti, da’ lavoro ai fiorai, fa pubblicità ad estetiste e agenzie di viaggio. Veramente triste, se pensiamo che questo lungo cammino è iniziato dalla morte di 129 donne ed è arrivato al “Fascino di essere donna”(slogan di una delle serate che si svolgerà al Tropicana, discoteca di Giardini Naxos) in mezzo a spogliarellisti e uomini famosi convinti di darti il contentino con una fotografia. È triste pensare che la donna con la scusa dell’emancipazione ne approfitta per passare una serata all’insegna della trasgressione o di qualche particolare e lussuoso trattamento di bellezza, senza invece pensare che in questo modo diventa un'altra occasione per farci sentire inadeguate e bisognose di miglioramenti.

L’otto marzo bisognerebbe ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, ma soprattutto le discriminazioni e le violenze cui le donne sono ancora oggetto in molte parti del mondo, Italia inclusa, e per cui bisogna lottare.

Per questo motivo lunedì otto l’ex camera dei lavoratori, salone municipale di Riposto sito in via Archimede, è stata aperta ai cittadini per una mostra sulle condizioni di vita delle donne africane. La Campagna Internazionale “Walking Africa deserves a Nobel”, promossa dal CIPSI e Chiama l’Africa, ha l’obiettivo di raccogliere un milione di firme per far assegnare il Premio Nobel per la Pace, non ad un singolo individuo, ma ad una collettività:le donne africane. “Donne che combattono su diversi fronti la loro lotta: in casa e fuori, nel clan, nella società, nella chiesa; una lotta che ha per avversario l'analfabetismo e la miseria, la fame e le epidemie, antiche tradizioni, tabù, stregonerie e a volte il solo fatto di essere donna ”. Ma non si vuol metter in evidenza il loro essere vittima, bensì il coraggio con il quale affrontano quotidianamente la sfida della sopravvivenza, perché se l’Africa rimane in piedi è proprio grazie al loro lavoro silenzioso, nascosto e tenace. Ed è proprio questo che si vuole premiare. Che si deve premiare.

Un appello è stato fatto anche ai media, perché anch’essi possano contribuire a far conoscere e valorizzare il loro impegno. Le donne africane sono protagoniste trainanti sia nei settori della vita quotidiana che nell’attività politica e sociale; donne imprenditrici, impegnate in politica, donne che si assumono il ruolo di promotrici dei diritti, della salute, della pace. Non è possibile immaginare il futuro dell’Africa senza avere davanti agli occhi le tante donne comuni che ogni giorno portano il peso di questo pezzo di terra, ne assumono i drammi e ne vivono le speranze.

La Campagna sta ottenendo sempre più riscontri: solo in questi ultimi giorni l’appello da inviare al comitato che attribuisce il Nobel è stato firmato dal presidente della Camera Gianfranco Fini e dall’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, che si è impegnato in prima persona per far firmare anche tutti gli altri ex presidenti della Camera. Istituzioni politiche, ex premi Nobel come Richard Odingo, personalità del mondo della cultura e dello spettacolo si stanno mobilitando per appoggiare la candidatura. Numerose iniziative ed eventi sono in corso di programmazione per tutto il 2010. Anche al consiglio comunale di Catania è stata chiesta l’adesione. E per noi, cittadini di un mare che profuma d’Africa, è stato importante dar voce a queste donne (anche se non ascoltata o sentita da tutti), proprio in un giorno storicamente dedicato alle donne.

sabato 6 marzo 2010

mercoledì 25 novembre 2009

GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Napolitano: «La violenza sulle donne
è un'emergenza su scala mondiale»

Matrimoni forzati, mutilazioni genitali, stupri: gli ultimi dati valutano oltre 140 milioni di casi.

«E’ triste dover ricordare che anche in Italia, nonostante la recente introduzione di norme opportunamente più severe, i casi di violenza, i soprusi e le intimidazioni sono in aumento. Ai necessari interventi di tipo repressivo, da esercitare con rigore e senza indulgenza, si debbono affiancare azioni concrete per diffondere, in primo luogo nella scuola e nella società civile, una concezione della donna che rispetti la sua dignità di persona e si opponga a volgari visioni di stampo meramente consumistico spesso veicolate anche dal linguaggio dei media e della pubblicità. Solo così sarà possibile creare una cultura di autentico rispetto, innanzitutto sul piano morale, nei confronti delle donne»